La strega del Monte Tonale (Valcamonica)

La strega del Monte Tonale (Valcamonica) 1

Francisco Goya, Il sabba delle streghe, 1819-1823.

Il nero in Italia non finisce mai. Anzi, più sole splende sulla nostra dolce e amara penisola, più le ombre si fanno invadenti, corpose, impenetrabili. Questa volta ci siamo un po’ persi tra le tante storie gotiche che si potevano raccontare. Ci siamo persi nel fitto reticolo di strade, memoria e folklore che contraddistingue il panorama italico. Così abbiamo chiuso gli occhi e puntato il dito a caso sulla cartina. Quando li abbiamo riaperti, sotto il polpastrello dell’indice c’era una zona montuosa sopra Brescia. Il ricordo delle donne bruciate nell’estate del 1518, la più terribile nella storia di questi luoghi, ci chiamava. Noi abbiamo obbedito e la nostra Fiat scassata ha ripreso a mangiare chilometri. Finché eccoci qua, a Nave, provincia di Brescia, dove il volto di una vecchia donna ci appare ogni tanto come un pensiero fastidioso. Si chiama Benvegnuda Pincinella, la strega delle streghe del monte Tonale. È morta il 29 giugno 1518, nel mezzo di una folla urlante, sotto lo sguardo fiero di uomini a cavallo. Benvegnuda poteva sembrare solo una vittima della caccia alle streghe. Invece fu una donna che scelse. Nel bene e nel male scelse di essere ciò che sentiva di essere.

Quando vennero sfondando la sua porta a calci, uomini con armature e spade, Benvegnuda, la piccina – Pincinella come la chiamavano in paese – era sveglia già da un po’. Preparava decotti di erbe sopra il fuoco acceso, nella sua casa immersa nel tenebroso silenzio che precede l’aurora. E pensava al sogno che aveva fatto quella mattina: era nei boschi, sul monte Dragone, proprio vicino a casa sua, china su un cespuglio odoroso a raccogliere foglioline e bacche, e ad un tratto si era trovata di fronte un leone, in una posa fiera. Quando guardò meglio vide che dalle scapole della bestia partivano due grosse ali bianche. Benvegnuda conosceva quel leone, era San Marco, simbolo della Serenissima Repubblica di Venezia…

Quando bussarono alla porta, Benvegnuda non fece neppure in tempo a rispondere che già qualcuno aveva cominciato a menar calci alle assi di legno dell’uscio. Era il 24 giugno dell’Anno del Signore 1518.

La strega del Monte Tonale (Valcamonica)

Targa commemorativa sulla torre Federici di Sonico, paesino della Valcamonica, tra i più colpiti dalla purga della Santa Inquisizione nel corso del 1500.

Le notti della Valcamonica in quell’estate infernale del 1518 furono rischiarate da decine e decine di roghi di più di ottanta donne condannate solo tra giugno e luglio. Per loro, come per la vecchia Benvegnuda, tutto iniziò così: con un drappello di uomini violenti che veniva a stanare le “strighe” fin dentro le loro tane. Poi sarebbe seguito il processo, con la tortura. E tutte, tutte loro, sarebbero arrivate a pronunciare una frase che decretava la loro condanna e nello stesso tempo la loro liberazione: “Ditemi dunque voi che cosa ho da dire e io lo dirò e finiranno i miei tormenti”. Quell’estate devastante fu una macchia nera nella storia della liberazione delle popolazioni montane dai diavoli e dalle streghe. Fu diretta con una tale indiscriminata e feroce violenza da convincere persino il Consiglio dei Dieci di Venezia ad intervenire per fermare quella carneficina. Ma nulla compare nei libri di storia, tutto spazzato via dalla scopa di una fattucchiera come sporcizia sotto il tappeto dei secoli. “Non ce la faccio più, ditemi quello che devo dire e lo dirò”, continuavano a ripetere una dietro l’altra donne apparentemente rispettabili (come avrebbe potuto notare la gente dell’epoca) quella maledetta estate del 1518. Ma dalle fonti che sono giunte fino a noi, dagli atti del processo che si possono studiare, Benvegnuda Pincinella da Nave, Brescia, non disse quella frase. Semplicemente resistette alle torture per tre lunghi giorni. E poi confessò con una tale abbondanza e dovizia di particolari da togliere ogni dubbio ai suoi giudici e forse da convincere anche se stessa di essere stata posseduta più volte dai demoni di notte nei boschi, di aver danzato nuda illuminata solo dalla luce di un falò. Di aver tenuti soggiogati tutti con i suoi malefici e incantamenti.

Attenti bene signore e signori, “questo è il processo di Benvegnuda detta Pincinella, di terra di Navi di Valcamonica, striga, qual fo brusata”. E’ Marin Sanudo a parlare, il nobile veneziano che raccontò il processo nei suoi Diarii.

[…] Tu cognosci quanto è maligna la natura dele done et prona a la luxuria et atto carnal, ho voluto tor queste, le qual done e strige, dico di quele che vano, si trovano che hanno sessanta anni, et non basta che loro vano, ma menano le soe proprie figliole et nepote de sei et sette et otto anni, et sotometendose esse vecchie al demonio, sottometono anche le dite pute et le fanno morose del diavolo; […] Questa era vechia de anni 60, et era una de le principal et se chiamava per nome dona Pincinella, da una terra appresso Brexa sei miglia, la qual chiamasi Navi; ma il proprio nome di costei era Benvegnuda e il nome dil marito si era Pinzinello.

Dopo tre giorni di prigionia passati sostanzialmente a difendersi dalle accuse, la mattina del 26 giugno 1518 Benvegnuda confessa e giura che il suo corpo è abitato da un demone di nome Zulian (Giuliano), che le parla continuamente; confessa e giura che molti demoni l’hanno posseduta per molte notti nei boschi e sui monti attorno a Nave e quando l’inquisitore le chiederà come faceva a distinguere che erano demoni e non solamente uomini, lei dirà, mostrando una conoscenza profonda della fenomenologia demoniaca, che se n’era accorta a causa della temperatura fredda del loro sperma. “Naturale – risponderà l’inquisitore – il diavolo no ga corpo, egli se serve de altri corpi”. Naturale.

Prima di raccontare la storia di questa donna che da medichessa, guaritrice e punto di riferimento della sua comunità giunge sul rogo della Santa Inquisizione, vorremmo soffermarci su un particolare, che di solito non viene sufficientemente rilevato quando si discute dei mali della caccia alle Streghe. Intanto tutti in paese ricorrevano alla conoscenza magica di donna Benvegnuda, dal mandriano al podestà di Brescia. Lei sapeva guarire le persone e le persone ricorrevano ai suoi riti e alle sue ricette, realtà che convivevano con la fede cattolica, in un luogo quello alpino storicamente di difficile cristianizzazione. Ma forse non si poteva permettere che una donna avesse tutto quel potere tra la gente, il controllo doveva essere ricondotto nelle mani dell’autorità ecclesiale e laica. Ma c’è molto più di questo. Il vero incubo ad occhi aperti che merita una puntata di questa rubrica viene dalla modalità con cui tutto ebbe inizio. Come aveva inizio sempre. L’invidia, la gelosia, la paura, la cattiveria delle persone più vicine. Benvegnuta Pincinella da Nave fu denunciata dal suo dirimpettaio, il quale aveva fatto ricorso ai suoi poteri, ma forse ne era rimasto poco soddisfatto. Fu lui che di fronte a fra Lorenzo de Mazi rivelò di abitare di fronte ad una strega. Bastò quel piccolo atto di viltà (o di eroismo, se si osserva dal punto di vista di fra Lorenzo e della mentalità dell’epoca), bastò quella piccola scintilla per innescare un incendio che scosse tutta la Valcamonica e che in un qualche modo è giunto fino a noi.

Prima che i soldati sfondassero la sua porta, in quel paese di quattro case chiamato Nave, posto ai piedi di due grossi massicci nel territorio di Brescia, Benvegnuda stava seduta davanti al fuoco a veder bollire piante e radici, e con la mente viaggiava. Le sue pozioni e i suoi poteri che l’avevano resa famosa in paese ora la trafiggevano con le immagini confuse di un lutto che stava per arrivare. Non immaginava certo quello che sarebbe accaduto. Non avrebbe mai creduto possibile che, giunta ai sessant’anni dopo una vita passata a medicare e a risolvere i guai della gente, potesse essere presa con la forza, derisa, picchiata e portata di fronte alla potenza della Santa Inquisizione. A dire il vero, c’era stata un’altra occasione di contatto con il tribunale ecclesiastico. Lo ricordavano tutti in paese quando fu accusata alcuni anni prima di praticare le arti magiche e dovette vestire il saio con le croci rosse cucite sopra ed esporsi al popolo di fronte alla chiesa del paese. Ma dopo quello pensava che l’avrebbe ormai fatta franca. Il popolo ancora invocava il suo nome di fronte alle difficoltà e alle tragedie che il destino poneva loro innanzi. E pensare, ricordava ora Pincinella, che la sua vita sembrava destinata ad altro: a menar le vacche e le capre a pascolare sui monti, come suo padre, e come il padre di suo padre prima di lui. Quando andava per vallate di sconfinata bellezza o si arrampicava su irti sentieri conosciuti solo alle bestie veniva attratta dalla spettacolare varietà della natura e dal potere nascosto che avevano certe piante, soprattutto se lavorate dalla sapiente mano dell’uomo e mescolate tra loro, come si era sempre fatto fin dalla notte dei tempi. E così piano piano cominciò a raccogliere, a bollire, a mescolare, e ogni tanto andava a trovare la striga del paese che le centellinava i suoi segreti. Fu così che donna Benvegnuta si emancipò da una vita già segnata e divenne un punto di riferimento del paese.

La strega del Monte Tonale (Valcamonica) 3Il 19 giugno 1518 di notte un uomo, tale Benvegnudo da Pontevigo, vicino di casa della strega, venne chiamato a comparire al convento di San Domenico a Brescia di fronte al luogotenente dell’inquisitore, frate Lorenzo di Mazi, per essere interrogato circa la sua precedente deposizione. Correva voce, affermò l’uomo, che Benvegnuda Pincinella fosse strega, che aveva stregato molte persone, incantato giovani e provocato tempeste. L’accusata sarebbe stata a detta del suo vicino una delle streghe più potenti tra quelle terre, faceva riunioni con le altre streghe e i demoni su al monte Tonale, dove commettevano ogni sorta di malefici e blasfemie contro la fede cattolica. Il racconto di Benvegnudo si arricchì sempre di più, soprattutto quando si accorse che fra Lorenzo cominciava a trovare poco interessanti le sue accuse in tutto e per tutto simili ai racconti e alla documentazione conosciuta all’epoca. Allora Benvegnudo aggiunse esperienze dirette. Disse che l’accusata spesso parlava con lui e gli raccontava le stregonerie e i misfatti che compiva. Quest’ultima parte sembrò convincere molto di più l’inquisitore che effettivamente proseguì le indagini, sentì altre persone, tra cui il parroco del paese, e tutte dissero che la donna era capace di atti inauditi. Solo stringendo l’oggetto di un ammalato donna Benvegnuda era capace di riconoscere il male che lo affliggeva e di guarirlo.

Il 24 giugno 1518, cinque giorni dalla deposizione di Benvegnudo da Pontevigo, Benvegnuda Pincinella fu arrestata a Nave e condotta a Brescia “nella presone de li eretici et strige”.

Il 26 giugno la donna comparve davanti al vicario dell’inquisitore Lorenzo di Mazi, nella cancelleria del convento di San Domenico a Brescia. Benvegnuda capì che doveva giustificare il fatto di aver ripreso a medicare la gente anche dopo quel primo provvedimento delle autorità ecclesiastiche. E lo fece spiegando che l’autorità della persona che si era rivolta a lei l’aveva esortata ad agire. Si trattava niente di meno che del podestà di Brescia.

“Credo esser stà retenuta per aver contrafata a quella sententia che fo fatta un’altra volta contra de mi, che non dovessi medegar più alcuna persona; ma l’è ben vero che la magnificentia del podestà che fo missier Sebastian Justinian alora me mandò a tuor per medicar una soa fiola che era stà maleficiada […]”.

Così inizia tutto. E per un po’ donna Benvegnuda tentò di difendersi in ogni modo, disse che nelle sue formule lodava e invocava sempre il nome di Dio e della Madonna. Tutto questo ce lo dicono gli atti del processo, quindi non possiamo che avere una visione parziale di quei giorni. Sappiamo che l’anziana donna (allora a sessant’anni si era molto anziani) fu trattata come tutte le altre. La torturarono, soprattutto alla corda, un macchinario che grazie ad ingranaggi permetteva di tirare il corpo del condannato provocando indicibili sofferenze. Sappiamo che il giorno 27 giugno donna Benvegnuda decise di cambiare tattica, iniziando una confessione che, come anche lei doveva sapere, avrebbe potuto condurla ad un unico prevedibile epilogo. Ma ugualmente Benvegnuda raccontò tutto. Disse che c’era un diavolo che abitava in lei, nella sua gamba, si chiamava Zulian e le parlava continuamente e le diceva cosa fare. Raccontava che si recava con regolarità sul monte Tonale per i sabba, e lì veniva posseduta carnalmente da molti demoni e in molti modi, poi si profanava la croce e i riti continuavano. Com’era cominciato tutto? Anche questo Benvegnuda racconta con dovizie di particolari. Era un giovedì di una notte di fine estate…

“Un giovedì sera di ventiquattro anni fa, alle due di notte andai a casa di uno che si chiamava Ambros, nel suo cortile, a filare. Lì c’era una ragazza da marito che si chiamava Fior e filavamo insieme. Fior suggerì di andare al frantoio di Zuan de Urag a rubare un po’ d’uva…”. (testo parafrasato in italiano corrente)

Secondo il racconto della donna, quella notte incontrarono una signora vestita di nero che gli fece conoscere due uomini con cui si appartarono sulla riva del fiume Mella e si unirono carnalmente. Gli uomini erano in realtà demoni e uno di loro si chiamava Giuliano, Zulian. Ci mise due giorni Benvegnuda per raccontare tutto e per rispondere alle domande dei frati. Poi il 29 giugno arrivò immediata la condanna del vicario Battista de Caperonibus e di fra Lorenzo de Mazi: “Abbiamo accertato che hai ripreso i tuoi sabba satanici con il tuo complice, il demone Zulian, e con altri demoni, e che sei stata nel bosco ogni giovedì sera finché sei stata catturata e portata dagli ufficiali della Santa Inquisizione in prigione, e che hai rinnegato la fede e hai accettato Satana come tuo Dio. Il tribunale ecclesiastico, constatata con certezza la tua ricaduta nell’eretica malvagità, ti consegna nelle mani del giudice secolare…”.

L’anziana donna vestita con un ruvido saio viene legata alla colonna in piazza della Loggia a Brescia, con attorno una folla urlante nel torrido 29 giugno 1518. Il viso di Benvegnuda non tradisce alcuna preoccupazione, solo alza lo sguardo e finalmente lo rivede. In alto, in cima alla colonna c’è il leone alato simbolo della Serenissima. Mentre lo fissa, le voci intorno a lei si attutiscono, i suoi nervi cedono, l’immagine di San Marco si sfoca piano piano, mentre i contorni si incendiano di un fuoco purificatore.

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Piazza della Loggia, Brescia, con la colonna della Serenissima sotto il quale fu arsa viva Benvegnuda Pincinella da Nave.

Daniele Modica

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