«Non aveva voluto credere che il suo avversario fosse così scadente. E peggio ancora: quasi sino alla fine della contesa aveva voluto illudersi di non essere all’altezza dello sconosciuto. Aveva voluto considerarlo imbattibile per la sua sicurezza, la genialità e l’aura giovanile che lo circondava. Per questo aveva giocato con tanta esagerata cautela. E non solo: se doveva essere del tutto sincero, era perfino costretto ad ammettere di aver provato ammirazione per lo sconosciuto, non meno degli altri, sì, e di avere desiderato che potesse batterlo, e finalmente infliggere a lui, Jean ─ magari in modo eclatante e geniale ─,la sconfitta che ormai da anni era stanco di aspettare, per liberarsi una volta per tutte dal peso di dover essere il più grande e di dover battere tutti. Perché gli spettatori malevoli, quella manica d’invidiosi, fossero infine soddisfatti, per essere lasciato in pace, finalmente…
Ma poi come sempre aveva vinto. E questa vittoria era per lui la più ributtante della sua carriera, perché per evitarla, durante tutta una partita, si era rinnegato e denigrato e aveva deposto le armi davanti al più miserabile dei dilettanti.»
Tratto da: Una sfida (Ossessioni 1995), di Patrick Süskind