Speciale al femminile (1/4): Rebecca, la prima moglie, ovvero tre donne, un castello e il mare

Inizia tutto con un sogno.
Uno dei migliori inizi della storia del cinema, da fiaba gotica. Quel cancello che si apre, quel sentiero tortuoso tra i rovi, sino a quelle mura annerite da antiche fiamme. Le mura ormai abbandonate di Manderley. E la voce della protagonista che ci racconta di esserci appunto ritornata in sogno, ma di sapere che il castello di Manderley è con certezza alle sue spalle, nel suo passato.
Mia nonna diceva sempre “se inizia dalla fine allora è una bella storia”. Non vale ogni volta, ma la narrazione in flashback ha sicuramente un suo fascino.
Lo sapeva Daphne Du Maurier che ci costruì sopra, nel 1938, il suo romanzo Rebecca. E lo ha applicato in modo magistrale Alfred Hitchcock, che da quel libro trasse il suo primo film americano, con il grande produttore O Selznick, nel 1940.
Dopo l’inquietante sogno iniziale, infatti, la vicenda torna indietro nel tempo, su una scogliera di Montecarlo, dove una giovane donna, lì per fare da dama di compagnia ad un’insopportabile riccona, incontra un uomo elegante e tormentato, che pare sul punto di suicidarsi. Il classico primo incontro burrascoso che porta, come in una favola, all’innamoramento e al matrimonio.
Lui è Maxim De Winter, bello, ricco, vedovo e, si dice, ancora divorato dal dolore per la perdita della moglie. Lei, la ex dama di compagnia orfana a cui di colpo cambia la vita… di lei, la protagonista, non sapremo mai il nome. In tutto il film, così come nel libro, non viene mai pronunciato.
E così eccola, giovanissima, timida, semplice, insicura, entrare nel ventre oscuro e misterioso di Manderley, la dimora di famiglia di Max, e trovarci l’altra, la prima moglie, Rebecca, morta ma ancora dovunque, il suo nome, sì, il suo pronunciato di continuo, scritto, rievocato in iniziali e simboli, la sua presenza in ogni stanza, soprattutto nella meravigliosa camera dell’ala ponente. La più bella della casa. Come sembra fosse Rebecca, la più bella, la più amata.
Sublime questa opposizione, perfettamente speculare: la seconda moglie, ragazza senza nome, e la prima, Rebecca, fantasma senza volto.
E poi c’è la terrificante signora Danvers, la governante, al servizio di Rebecca da prima che si sposasse e che ne venera il ricordo quasi come un’innamorata. Inespressiva come una statua di cera, ovviamente alimenta le insicurezze e le ansie della nuova signora De Winter, che lei non considera tale, perché l’unica signora De Winter resta Rebecca.
Noi spettatori viviamo tutto attraverso il punto di vista e le emozioni della nuova moglie, il suo senso di inadeguatezza, la sua ingenua tenacia, il suo inesperto ma autentico amore per Max.
E interpretiamo la realtà con i suoi occhi: la presenza soffocante di Rebecca pesa su di noi, la Danvers ci irrita e inquieta e i silenzi e il carattere ombroso di Max ci riempiono di dubbi sui suoi sentimenti. Tutto ci porta a pensare che si sia risposato per ripiego, per troppa solitudine, ma che il suo cuore appartenga sempre, per sempre, a Rebecca. E Manderley, immenso, spettrale, incombente, ci ipnotizza, imprigiona, ammalia.
Poi giunge una tempesta, il mare restituisce il panfilo su cui Rebecca, affondando, aveva trovato la morte… e un colpo di scena inatteso scuote le fondamenta della storia, cambiando tutto. Scopriamo che ogni cosa, letteralmente, era diversa da come la protagonista, e noi con lei, aveva immaginato.
Non svelo come né perché. Per quel che mi riguarda, la sorpresa mi ha fatto cadere la mascella e non voglio rovinare il momento a coloro che – male, molto male!- non hanno ancora mai veduto questo capolavoro.
Se non lo avete fatto, quindi, vedetelo e scoprite come mai Manderley è bruciato, cosa ne è stato dei vari personaggi e se la protagonista ha potuto fugare i propri dubbi e diventare una donna sicura di sé e del proprio amore.
Il film ottenne due Oscar, tra cui quello come miglior film. Indimenticabili le musiche di Franz Waxman e fantastico il cast: una straordinaria Judith Anderson, che da’ vita a una signora Danvers davvero agghiacciante; il mio amatissimo Laurence Olivier, che sa rendere come solo lui sapeva fare la indecifrabile complessità di Max De Winter; e Joan Fontaine (sorella di Olivia De Havilland), nel ruolo centrale della moglie senza nome, perfetta nell’incarnarne la genuina semplicità e la timidezza, capace poi di maturare e conferire spessore e profondità nel procedere della storia. Hitchcock la volle contro il parere di molti e naturalmente vide giusto.
In quanto al Maestro del brivido com’era sua consuetudine appare nel film in un piccolo cameo. Cercatelo, vi do un indizio in una delle fotografie che accompagnano questo testo.
In conclusione, una cosa sul finale ve la posso dire: Manderley brucia (e lo sapevate già), qualcuno muore (non si può dire chi) ma Jasper si salva.
Jasper è il cane.

Franca Bersanetti Bucci

Sono Franca, vivo in provincia di Ferrara e sono appassionata d’arte in generale, ma in particolar modo di teatro. Scrivo racconti, poesie e articoli su giornali online e siti internet.

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