Il 2016 si sta portando via tanti grandi artisti. Tra questi, qualche mese fa, Giorgio Albertazzi. Un nome, il suo, conosciuto anche da chi del teatro non si è mai interessato. Un artista che ha fatto scuola e lasciato un segno indelebile.
Non ho l’intento, con queste righe, di ripercorrerne la vita o la carriera. Altri più capaci di me lo hanno già fatto più che bene ed io risulterei solo ripetitiva.
Piuttosto voglio ricordarlo attraverso uno dei suoi personaggi, come credo forse sempre si dovrebbe fare con un attore. Consegnarlo alla memoria nelle vesti di quei personaggi a cui ha dato volto, cuore e anima, che ha studiato, portato in vita, fatto respirare, sognare, morire. Che ha amato.
Questo fanno gli attori: amano i personaggi che interpretano e sulla scena noi godiamo del risultato di questo amore.
E mi viene da pensare che Giorgio Albertazzi abbia veramente amato molto il suo Adriano.
Mi riferisco ad Adriano l’imperatore, che Marguerite Yourcenar rese protagonista del bellissimo Memorie di Adriano. Libro splendido, divenuto, grazie all’interpretazione di Albertazzi, anche un affascinante spettacolo teatrale.
Adattato per il teatro da Jean Launay, con la regia di Mauro Scaparro, porta il sottotitolo di Ritratto di una voce e infatti vive e respira, così come nel libro, attraverso il ritratto che Adriano fa di se stesso. Invecchiato e malato, l’imperatore sente avvicinarsi la fine e si racconta al nipote Marco Aurelio, ripercorrendo le tappe della propria appassionante esistenza. La vita di soldato, il percorso fino al potere, le relazioni con uomini e donne. Una discesa profonda nei ricordi, nei pensieri, nelle vittorie e nelle sconfitte interiori di un uomo non comune.
Nella versione registrata per la tv, Giorgio Albertazzi si muove nella cornice suggestiva di Villa Adriana a Tivoli, dove lo spettacolo ha avuto il proprio debutto nel 1989. E pur se solo al principio di un cammino durato quasi mille repliche in Italia e all’estero, l’attore è talmente già calato nel ruolo che davvero pare di vedere Adriano ritornato carne e sangue, in visita dal passato, per guardarci negli occhi.
Il volto di Albertazzi è quello di Adriano, la fusione appare totale, completa, e il suo sguardo attraversa il nostro di spettatori, guardando oltre, in strati di epoche e ricordi, scandagliando una storia remota eppure vivida che lui vede per noi e ci restituisce con disincantata onestà.
Lo spettacolo sceglie di concentrarsi soprattutto sul lato più personale della vita di Adriano. Egli analizza se stesso lungo il susseguirsi degli incontri, delle amicizie, delle passioni, degli amori. Donne, uomini. Volti.
«I volti che cerchiamo disperatamente ci sfuggono: è sempre solo un istante», dice Adriano. E un volto affiora tra tutti, più nitido, struggente, rimpianto. Un volto e un corpo, quelli di Antinoo, il bel levriero, come lui lo chiama, amato, soprattutto posseduto, perduto al cospetto del suicidio, una frontiera che nemmeno il potere di un imperatore può impedire di valicare. Il corpo di Antinoo che danza tra le ombre e le luci di Villa Adriana, la sua voce che si intreccia a quella di Adriano. Parole che si sovrappongono e riecheggiano come fluttuando nel fiume delle epoche.
Alla fine del viaggio dentro la propria memoria, Adriano ci guarda, con la complicità di Albertazzi. Ci guardano entrambi, l’espressione serena, malinconica forse ma è una malinconia dolce, con una pienezza che concede la vita davvero vissuta.
“Cerchiamo di entrare nella morte ad occhi aperti”, dicono. E lo dicono con sguardo limpido.
Credo lo abbiano fatto. Entrambi.