Un miliardo per un sogno: Cristiano Lucarelli e la 99 amaranto

La storia dello sport è ricca di racconti incredibili, di imprese di squadre e campioni che hanno regalato emozioni uniche agli appassionati e lasciato un segno indelebile nella memoria di ciascuno di noi.
Così, in questa prima uscita della mia rubrica, la prima grande difficoltà è stata quella di rispondere alla domanda: “e ora da dove inizio?”. Subito i primi pensieri sono andati ai più grandi campioni, a quelle icone degli sport di squadra che anche i meno appassionati conoscono e a quegli eventi sportivi che chiunque ha vissuto con gli occhi incollati al televisore.
Pensavo di inaugurare questa rubrica con Michael Jordan e i suoi 6 titoli NBA con i Chicago Bulls, con Diego Armando Maradona che segna il gol del secolo a Città del Messico o con Fabio Cannavaro che solleva la Coppa del Mondo sotto il cielo di Berlino, tinto d’azzurro in una notte di Luglio del 2006…

Beh, non mancherò certo di raccontare queste e altre storie, prossimamente.

Mentre riflettevo, mi è tornata improvvisamente in mente una frase che mi aveva particolarmente colpito, letta da qualche parte tempo fa. Appartiene a un famoso poeta e scrittore argentino, Jorge Luis Borges: “ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per strada, lì ricomincia la storia del calcio”. Ecco allora la risposta alla mia domanda. Voglio iniziare proprio da qui: da quel ricordo che probabilmente ogni maschio-medio-italiano ha del momento in cui, da bambino, ha preso a calci una palla immaginando di essere il suo calciatore preferito. Non importava se il pallone fosse di cuoio, di plastica, di spugna, gonfio o bucato e se ci si trovasse in un campo da calcio, in un prato, nel giardino di casa o talvolta anche in salotto (scusa mamma per quei vasi rotti!): in quel momento ci si sentiva davvero dei campioni e si sognava ad occhi aperti un gol per la nostra squadra del cuore in uno stadio pieno di gente in delirio. È proprio da quei momenti, forse, che ognuno di noi coltiva la passione per uno sport.

Il racconto di oggi inizia probabilmente da un pensiero così.

Cristiano LucarelliSiamo negli anni ’80 e in un quartiere popolare di Livorno un bambino scende in strada a giocare insieme al fratello, con il quale ha unito la paghetta per comprare un pallone. Sogna di fare il calciatore da grande e di farlo con la maglia della squadra della sua città. Il legame tra Cristiano Lucarelli e Livorno è infatti qualcosa di intenso, unico, viscerale. Un legame che unisce vita, famiglia, calcio, appartenenza sociale e politica.
Città ribelle e dall’animo proletario, fortemente antifascista, Livorno influenza e al tempo stesso si rispecchia nell’ideologia di Cristiano Lucarelli, la cui aperta manifestazione lo pone spesso al centro di polveroni mediatici, come accade dopo l’esibizione di una maglietta degli ultras livornesi recante l’effigie di Che Guevara in omaggio alla curva che a lungo lo aveva ospitato da ragazzo, in seguito a una rete segnata con la maglia della Nazionale Under 21 proprio a Livorno. Per non parlare della sua tipica esultanza con il pugno alzato dopo ogni suo gol.
Livorno ha una tradizione calcistica modesta, con fortune alterne, dagli anni di gloria della Serie A al campionato di Eccellenza dopo il fallimento nel 1991. Quasi tutti i bambini della città tifano per le più titolate squadre nazionali, ma Cristiano non si capacita di come facciano: per lui conta solo la maglia amaranto.
E quello di vestirla, un giorno è il suo sogno nel cassetto, l’obiettivo da perseguire. Un sogno che diventerà realtà quando la fama del calciatore sarà forse più grande del suo sogno stesso.
Ma torniamo da dove eravamo partiti e da questo bambino che tra i calci al pallone col fratello Alessandro e le partite del Livorno in curva la domenica, inizia il suo percorso nel calcio giovanile. All’età di sei anni Lucarelli muove i primi passi nel Carli Salviano, prima che le sue buone qualità gli permettano di passare all’età di tredici anni all’Armando Picchi, squadra giovanile più importante della città toscana, dove inizia ad attirare l’attenzione degli osservatori e dei dirigenti delle importanti società calcistiche nazionali. Tuttavia, per il grande salto nel calcio che conta, Lucarelli dovrà ancora attendere. Il direttore sportivo dell’Armando Picchi lo cede infatti al Cuoiopelli, squadra che milita in serie D. Qui il ragazzo ha l’opportunità di crescere gradualmente e mostrare le sue buone doti da centravanti, che gli valgono la chiamata del Perugia, dove inizia a respirare aria di professionismo. Poi, come spesso accade ai giovani calciatori, un lungo giro per l’Italia: Cosenza e Padova prima di giungere finalmente all’esordio in serie A con la maglia dell’Atalanta nella stagione 1997/1998. Nonostante Lucarelli dimostri di essere un giovane promettente e disputi una buona stagione, la squadra bergamasca retrocede. Arriva però l’offerta del Valencia, importante squadra spagnola allenata dall’italiano Claudio Ranieri. La grande occasione è tuttavia frenata da un grave infortunio, che lo costringe alla lontananza dal campo per sette mesi. La sua esperienza spagnola non decolla e la decisione è quella di tornare in Italia, dove il Lecce è pronto ad accoglierlo. Qui due ottime annate con 31 reti in 66 presenze, prima del passaggio al Torino, dove riesce a strappare il primo importante contratto dal punto di vista economico: due miliardi e mezzo di lire.
La fama del giocatore continua a crescere, ma la mente e il cuore di Lucarelli sono sempre alla sua Livorno. Ogni domenica tra il primo e il secondo tempo e a fine partita, qualcuno nello spogliatoio deve informarlo sull’andamento della partita degli amaranto, prima di telefonare agli amici per farsela raccontare.
Siamo nel 2003: l’attaccante milita in serie A, nel Torino. Il Livorno in serie C1 inizia a scalare rapidamente la classifica e un’idea folle (considerando le logiche del calcio moderno) inizia a farsi strada nella mente di Lucarelli: Se il Livorno sale in serie B, io torno a casa. Il pronostico si avvera: la squadra della sua città conquista la serie B, ma non può certo permettersi l’elevato stipendio del calciatore. Il Torino gli offre addirittura un aumento per trattenerlo, ma il cuore di Cristiano ha già deciso. Lui vuole quella maglia. Sarebbe persino disposto, se necessario, a rinunciare a tutto il suo stipendio per tornare a casa. Il suo procuratore, Carlo Pallavicino, incredulo per quanto stia accadendo, riesce a raggiungere un compromesso più razionale: il Livorno si spinge a pagargli un miliardo, il Torino altri 500 milioni e l’attaccante rinuncia al restante miliardo di ingaggio.
Quel sogno nel cassetto si può finalmente realizzare con questo gesto folle, assolutamente privo di razionalità e così inusuale nel calcio di oggi, legato come ben sappiamo al denaro e alle ambizioni di carriera di calciatori poco interessate a diventare bandiere dei club come accadeva in passato. All’apice della sua carriera, nel momento in cui la chiamata di una big e la prospettiva di guadagnare somme da capogiro sembrano imminenti, quel bambino che giocava in cortile col fratello realizza il prodotto della sua fantasia. Per farlo scende in Serie B, dove guadagnerà un miliardo di Lire in meno.
Dirà in un’intervista: «C’è chi con un miliardo si compra lo yacht o la Ferrari… Io mi sono comprato la maglia del Livorno».
Indosserà la numero 99, in onore delle Brigate autonome livornesi, gruppo ultras cui era legato, fondato appunto nel 1999. In amaranto raggiungerà prima la serie A e poi l’Europa, alzando il pugno al cielo 111 volte in 192 presenze.

La storia di questa trattativa è raccontata nel libro “Tenetevi il miliardo” scritto dal suo procuratore Carlo Pallavicino, nell’intervista-documentario “99 Amaranto” di Federico Micali e cantata nella canzone “Calciatore guerrigliero” dei Los Fastidios.

Francesco Santoro

One Comment

  1. Ho letto con il fiato sospeso…L’emozione di trovarmi dentro ad una passione, ad uno sport che non seguo.
    Ma la descrizione è stata così trascinante ed eccitante,
    che ho condiviso con vero piacere la bellezza di questo sport.

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