Il beffardo sorriso – prima puntata

Finalmente è arrivata l’estate. E immancabilmente, assieme al caldo, alle zanzare, all’odore di abbronzante e di salsedine, tornano anche i brividi estivi, le storie del terrore che ci accompagnano sotto l’ombrellone o nelle dolci e calde notti vegliate al lume di una piccola lampada.
Per questa terza puntata abbiamo deciso di interrompere i nostri viaggi tra i luoghi stregati o maledetti d’Italia e di gustarci un inquietante raccontino gotico.

Il beffardo sorriso

IL BEFFARDO SORRISO – PRIMA PUNTATA

Zia Tea fu trovata riversa sul pavimento nel corridoio della nuova casa dove si era trasferita recentemente con il marito e i due figli piccoli. Secondo il medico legale il decesso era avvenuto nella notte tra il 22 e il 23 gennaio 2001, all’incirca verso le due di notte. Due ore e mezza dopo che avevo lasciato la casa. Stando al referto medico la morte era stata causata da emorragia interna provocata da sette colpi inflitti all’addome della vittima poche ore prima. Il ventre e le braccia della zia erano piene di tumefazioni, alcune vecchie di giorni, altre più recenti. I giornali trovarono in zio Sandro il colpevole ancora prima degli inquirenti. Avrebbe picchiato la zia procurandole diversi danni agli organi interni. Ma io so che non è vero, e lo so perché quella sera ero là. Fu l’ultima volta che vidi la zia. Sarebbe dovuta essere una normale visita, noiosa e prevedibile come tutte le altre. Invece lasciai l’appartamento sconvolto, il volto sudato e i polmoni desiderosi dell’aria gelata di quella notte di neve. Ma questo viene dopo.
Nelle ultime ore del pomeriggio del 22 gennaio 2001 sono ancora del tutto inconsapevole di quello che avrei visto e sentito. Ci sono io alla fermata dell’autobus nel fragoroso luccichio della periferia, diretto a casa di zia Tea per vedere lei, i bambini e zio Sandro, che è come un cucciolo fedele che scodinzola e mi fa le feste ogni volta che mi vede. Da qualche mese gli zii si sono trasferiti in periferia, dove gli affitti sono più bassi. Per questo non è più così facile andare a trovarli con regolarità. La distanza mi obbliga a cambiare tre bus e a farmi pure un pezzettino a piedi. Di acquistarmi una macchina non se ne parla con lo stipendio pidocchioso che mi danno. E così mi rassegno alla trafila delle fermate e dei mezzi pubblici che, maledizione, mai una volta arrivano in orario, anzi girovagano flemmatici nelle nebbiose giornate invernali come attempati monatti, seguaci di tabelle alla fine sempre disattese. Cosicché le persone pazientemente si acquattano sui cigli delle strade, in prossimità degli appositi cartelli, e come segugi attendono, flettendosi ritmicamente sulle punte dei piedi, tendendo il collo e stringendo gli occhi nella speranza di scorgere la tanto agognata mole arancione in movimento.
Parto nel pomeriggio, dopo il lavoro. Un chilometro e mezzo per raggiungere la fermata più vicina e dopo un tempo indefinibile salgo sul ventuno e scendo in corso Moro, davanti alla Coin. Cambio altri due bus e finalmente arrivo a destinazione. M’incammino, le mani nelle tasche del cappotto, verso il numero dodici della via, un insignificante palazzo dei primi del novecento che ora, a causa dell’incuria, si abbandona ad un indecoroso invecchiamento. Vecchi smunti e tabaccosi, incorniciati dalla vetrina di un bar sport, giocano a carte nella sala esigua, soffocata in quattro muri ingialliti dal fumo. Un telefono appeso imprigionato nello scotch e un flipper ormai estinto. Il barista è un anziano con i capelli bianchi raccolti in un codino corto ed inzaccherato. Da quello schermo di fumo e urla vernacolari non smettono di uscire variopinti motti gridati con voce raschiata. Gli schiamazzi e le bestemmie dei giocatori di carte volteggiano nella sala unta del bar, poi si fermano sulla porta come un’insegna minacciosa e infine si smarriscono nell’aria fredda e frizzante, subito sostituiti da altre imprecazioni, in un rinnovo continuo. Riprendo il cammino con le bestemmie che mi seguono rimbalzando per il viale. Mi fanno pensare a Dio. Alzo la faccia verso l’alto. Metafisiche nuvole viola stanno profanando il candore oscuro del cielo.
Ecco il 12. Suono. Mi risponde una voce metallica: -Checco?-. Checco. Il mio nome sarebbe Francesco, ma continuano a chiamarmi così da quando avevo dieci anni.
-Checco, sei tu?
Rispondo e il portone si apre. Le scale del palazzo sono vorticose e odorano di muffa. Lascio la città alle sue sacrileghe cacofonie e mi arrampico in cima. Arrivo con un principio di enfisema all’agognato pianerottolo. La zia e i bimbi, Giulia e Matteo, mi accolgono con grida festose e abbracci passionali (neanche stessi tornando a casa dopo anni passati come artigliere a Beirut). Lo zio non c’è. Vengo ricondotto mio malgrado a perlustrare le stanze della casa per rintracciare anche i più insignificanti cambiamenti apportati dalla mia ultima venuta. È il rito di ogni visita in casa di zia Tea. Lei mi precede con i bambini e gesticola indicando qua e là, mi racconta le modifiche che vorrebbe completare ma che con ‘sti figli come si fa? Non ti lasciano il tempo neanche per grattarti la testa! I piccoli Giulia e Matteo intanto ignorando le lamentele della madre ci zampettano intorno vocianti ed eccitati per la novità della mia presenza.
– Dov’è lo zio? – domando mentre zia Tea mi appoggia davanti una tazza di caffè fumante. La tazza ha il disegno di un cavallino di pezza che salta; due bottoni al posto degli occhi gli conferiscono un’aria spiritata e poco rassicurante. -Ma che ne so!- dice la zia, ma vorrebbe dire altro. E invece tace, come sempre. E’ difficile cavar fuori qualcosa dalla zia. E’ di poche parole lei, letargica e devota, dalla mole importante come una quercia invecchiata anzitempo.
I bambini giocano nel grande tappeto cremisi al centro della stanza, tra il televisore e il divano. I muri intorno a noi, rozzi e disadorni danno l’impressione di una primitiva caverna piuttosto che del salotto di un modesto appartamento proletario.
Fuori s’è messo un gran vento, una luce astrusa arrugginisce i tetti e imporpora i vetri delle finestre. Mi alzo.
– Sembra voglia nevicare- dico.
– Ma va là- stipula la zia senza un motivo plausibile.
– Scusa, non vedi?- replico.
Oltre i vetri sporchi della finestra c’è un cielo gotico e misterioso. La mia visita sta seguendo il copione di sempre, tranne per qualcosa che non riesco bene ad identificare e che mi lascia come una sensazione di irrisolutezza. C’è un perenne affanno scolpito sul volto della zia, un contrarsi leggero delle sopracciglia, l’incresparsi della pelle sulla fronte e ai lati degli occhi. Si è alzata per sgridare i bambini e ora torna al tavolo, avvicina il suo considerevole deretano alla sedia, lentamente e con le gambe tremanti per lo sforzo. Poi, quando non mancano che pochi millimetri, si lascia andare, mettendo a dura prova il robusto legno della sedia. Non è felice, questo è evidente. Forse c’è qualche problema a casa, probabilmente con lo zio. Nessuno dubiterebbe mai di zio Sandro: lui è un buono. La gente si è sempre sentita tranquilla con quelli come lui, forse perché tende a sottovalutarli. Non sanno il male che posso fare, i buoni. Lo zio è un muratore poco capace ma molto volenteroso. All’inizio un pochino lavorava, poi le cose erano andate peggio: di lavoro ce n’era sempre meno, lui si innervosiva e per non sfogare le sue frustrazioni sulla famiglia se ne stava a zonzo tutto il giorno dio-solo-sa-dove a fare dio-solo-sa-cosa, per poi tornare a casa a sera smunto e depresso.
Un tonfo sordo proveniente dall’altra stanza, forse dalla cucina, interrompe bruscamente i miei pensieri.
-Cos’è successo?- chiedo.
-Perché?- dice la zia.
-Come perché? C’è zio Sandro di là? Ho sentito un tonfo come qualcosa che va in pezzi- spiego e faccio per alzarmi.
Con una violenza insolita la zia mi spinge sulla spalla, costringendomi a sedermi. Poi sorride.
-Lo zio è fuori come al solito. Sicuramente il rumore veniva dalla casa dei vicini. Stai tranquillo. Vuoi dell’altro caffè?
-Sì zia, grazie.
La zia torna dalla cucina con in mano la moka, la inclina leggermente e il liquido scuro fluisce, in un filo morbido, sul fondo annerito della mia tazza. Mentre la ringrazio, noto come la mano con cui regge la caffettiera tremi vistosamente, come se reggesse un’incudine. La cosa mi impensierisce, non mi era mai sembrato prima che alla zia tremassero le mani. Lei come accorgendosi dei miei pensieri abbassa gli occhi e ritira il braccio, poi si volta e va verso la cucina. E’ evidente che i miei sguardi l’hanno messa in imbarazzo. Solo quando è già scomparsa nel corridoio mi decido ad andare a parlarle. Magari si apre più facilmente se presa in disparte lontano da orecchie infantili. Esco dal salotto e mi affaccio poco poco dalla soglia della cucina. Vedo la zia che getta la moka nel lavandino senza curarsi degli schizzi che riempiono le piastrelle intorno. A terra ci sono i mille pezzi di un bicchiere di cristallo frantumato. Ferma con le mani appoggiate sul bordo, abbassa la testa e stringe gli occhi talmente forte che penso non riuscirà più ad aprirli. La faccia le si riempie di grinze, una vecchia quercia con una vecchia corteccia graffiata. La bocca si deforma in una smorfia intraducibile e il volto le diventa paonazzo. Ora apre la bocca e il respiro si fa pesante, mentre la mano destra come in preda ad un raptus compulsivo traccia mille croci sul petto. Poi emette un rantolo rauco, simile ad un grugnito. Ora le mani tremano anche a me, indietreggio e senza fare rumore torno velocemente al mio posto in salotto.
Dopo pochi secondi ecco che la zia rientra, seria ma col volto disteso, come se nulla fosse successo. Si siede di traverso sulla sedia e appoggia pesantemente la mano destra sul tavolo. E’ un gesto che mi mette ansia. Le unghie sono incolte, smangiucchiate qua e là e nere in alcuni tratti. Una mano ferina, dove si concentrano impeti sfrenati e contrapposti: compostezza dei modi e slanci primordiali contenuti a fatica. Una mano dove si combatte una guerra impudica e silenziosa.
-Ti ho visto!- dice all’improvviso la zia interrompendo il lento ottenebrarsi delle mie riflessioni. Divento una brace. Come può essere? Come fa ad avermi visto se neanche si è voltata. Non può essere.
-Quando è stato?- continua –l’altro ieri forse. Eri per strada, alla fermata del bus e io pass…-
La zia prosegue ma io non sono più in grado di ascoltarla. E’ il sollievo, la mente si rilassa. Non è da me tutta questa mancanza di autocontrollo. Mi sento strano: io, di solito cinico e indolente, ora incrinato da qualche semplice anomalia.
-Mamma mamma guarda!
Giulia scintilla d’entusiasmo e indica, oltre la finestra, quel pulviscolo bianco, ancora quasi impercettibile, che fluttua nell’aria. Ci alziamo e andiamo a vedere, i visi appiccicati al vetro che s’appanna ritmicamente.
E’ sempre un evento la neve in città. La notte scende cremosa e molle sui tetti, cola sui panni appesi ai fili di nailon, soffocando mestamente gli ultimi bagliori rossastri. Dalla strada non viene alcun segno di vita e un’improvvisa malinconia mi stringe la gola. Sono arrivato qui attraversando la frizzante e nervosa vigoria della città, ma ora con l’arrivo del buio la gente sembra pizzicata dalle ataviche consuetudini della pianura e la giornata si spegne intorno a vecchie tavole scaldate da un brodino di pollo. Mano a mano che ci si allontana dalla città questo impulso collettivo si fa più incalzante.
-Che bello mamma!
Giulia ha negli occhi scuri mille cristalli di neve.
-Hai visto, tesoro?- dice la zia con finto entusiasmo –E’ bello, vero?
Non c’è proprio niente di bello stanotte. La neve, il buio, i bambini, il calore della casa. Quelli che solitamente sarebbero i particolari di una scena idilliaca, mi suscitano un’inquietudine sconosciuta, esacerbata dai muri grezzi di questo covile e dalla luce tenue della lampada che non arriva a lambire tutte le ombre.
E le ombre, tacitamente, giacciono. Mi sento fermo, statico, paralizzato nell’angolo più fatiscente di me stesso. Mentre fuori tutto scorre. Il vento invisibile striscia rumorosamente sull’asfalto nero e i fiocchi si attardano sotto i lampioni. La terra brulla dei campi al di là dei palazzi impallidirà stanotte, e le foglie dei sempreverdi gemeranno al freddo e al buio. Ma non c’è grido che possa anticipare di un secondo l’alba. Immense sagome nere ci stanno davanti mute: sono gli orgogliosi edifici del novecento, ornati di decine di quadrati luminosi, da cui filtrano scene di vita quotidiana. Calde cene e risate e telefonate e litigi e appuntamenti e cosce nude e sveglie che suonano troppo presto e canti stonati sotto la doccia e polvere che si accumula sulla foto del nonno e della nonna e feste di compleanno e bomboniere e viaggi e progetti e voglia di trasgressione e bugie e poi gocce di pipì sulla ciambella; e ancora lavatrici e pentole e tappeti e tende bianche. Promesse. Avverto in me l’estasi ansiosa del ramingo che sa che nessuna casa gli apparterrà mai. Resterò ancora un po’ nell’immobilità infernale di queste mura, al riparo dalle emozioni, immersi, come siamo, nell’irrispettosa solitudine della periferia.
-Che bello mamma! Andiamo fuori ti prego!
Questa bambina comincia a seccarmi.
-Mamma, mamma, io voglio, dai!
Zia Tea sembra non sentire, guarda fuori distrattamente. Qui è necessario reagire per non soccombere.
-Non si può andare giù adesso- dico -Bisogna fare da mangiare! E indovina chi verrà messa in forno? Una bambina cattiva di nome Giulia!
Incomincio a punzecchiarla e lei si lamenta indecisa se ridere o tenere il broncio.
-Ho paura a stare qui- sussurra tra sé zia Tea.
Ah no! Ecco, ci mancavano solo i piagnistei melodrammatici della zia. Ma io stasera non sono in grado di affrontarli. Sarei dovuto andare via prima. Allora fingo di non aver sentito, faccio per chinarmi sui giocattoli che riempiono il tappeto e balbetto qualcosa a Giulia.
-C’è qualcosa di strano qui- insiste la zia e digrigna i denti.
-A giocare!- grido imperterrito e mi butto sul pavimento provocando le risate di Giulia e del piccolo Matteo, il quale, in tutto quel tempo, infischiandosene della neve, era rimasto concentrato sui suoi giochi.
Ecco qui, tutto risolto. Certo quello che ha detto la zia mi impensierisce, ma chiederle spiegazioni sarebbe autolesionista. So cosa succederebbe poi: bilanci esistenziali accompagnati da tante lacrime. Non sopporto la gente che piange. Eppure la mia coscienza brontola. Magari dopo chiedo allo zio o alla mamma se è successo qualcosa. La mia coscienza continua a brontolare. Per farla tacere coinvolgo i bambini in un combattimento di judo a terra. Con la coda dell’occhio vedo la zia che torna a passi lenti al tavolo, il volto scuro, il solito rito per torturare quella povera sedia e, dulcis in fundo, un melodrammatico sospiro finale.
La coscienza ora mi sta urlando improperi. D’accordo, d’accordo, come vuoi tu. Mi alzo e vado a sedermi a fianco a lei. Passa un tempo indefinito.
-Senti, zia…
-Mamma sei un’idiota!
Mi volto di scatto tra il divertito e il sorpreso verso il mittente di quella constatazione poco carina. Giulia. Lei continua a giocare come se non avesse detto niente. Ma l’ha detto, non sono pazzo! A volte vorrei non sentire, è vero, ma ci sento benissimo.
-Mamma sei proprio un’idiota e cucini da schifo!
Rieccola. Bene, ora comincio a preoccuparmi sul serio. Giulia ha solo cinque anni. La zia non dice niente, fissa il tavolo. Che succede qua dentro insomma? Si sono fatti tutti lobotomizzare? Se me ne fossi andato prima! Volendo sarei ancora in tempo; è che adesso sono curioso. Vorrei tanto capirci qualcosa e visto che la zia sembra aver smarrito il senno mi metto in ginocchio e afferro delicatamente Giulia.
-Ma cosa dici? Dove le hai sentite queste cose? Lo sai che non si dicono? Sono cose brutte!
La bimba cerca di divincolarsi. Direi che se ne frega di me e dei miei discorsi. La lascio andare e torno davanti alla zia.
-Zia hai sentito? Che cavolo, non dici niente? Tua figlia ti ha chiamata idiota due volte!
La cosa ha il suo lato comico, devo dire. In circostanze normali mi sarei fatto venire una crisi respiratoria dal ridere, ma in questo caso è piuttosto inquietante. La zia è seria e non risponde, gli occhi bassi continuano ad osservare il tavolo. Tento di buttarla sullo scherzo.
-Che cucini male può averlo capito anche da sola, ma una bambina di cinque anni non dice idiota a sua madre. Forse l’ha sentito in televisione … Oppure potrebbe …
Mi viene in mente che magari lo zio in uno scatto d’ira può aver offeso la moglie di fronte ai figli. Tengo questa teoria per me.
La zia è ancora muta e non risponde.
-Tesoro, chi te le ha dette queste cose?- tento –Te le ha dette papà? Allora si può sapere chi? Zia dì qualcosa porca miseria! Giulia, chi le dice queste parole?
-Me le ha dette l’uomo che viene a casa nostra.
-Che uomo? Chi è?
-E’ un mio amico. È simpatico. Si diverte a far arrabbiare la mamma. E mi fa dire certe parole.
-Ah sì? E dov’è lui adesso?
-E’ in piedi di fianco a te.
-Giulia, ma qui non c’è nessuno. È un amico immaginario?
Un rumore improvviso alla serratura della porta di casa. Deve essere tornato zio Sandro. Infatti dopo poco si annuncia con uno sbuffo e un ciao svogliato. E finalmente compare smunto con il suo incedere depresso all’entrata del salotto. I pantaloni sporchi e bassi, il fisico asciutto che ha sempre avuto. Si da un colpetto all’uccello per sistemarselo, poi mi vede e si allarga in un sorriso bonario.
-Checco! Come stai? Se sapevo che venivi tornavo con qualcosa da mangiare! Potevi dirmelo! Resti a cena eh!- non era una domanda –Non ci provare neanche a dire di no.
D’un tratto gli era tornata l’energia, quell’entusiasmo genuino e popolano che prende lo zio ogni volta che vado a trovarlo. Ora si è fermato a riflettere ritto al centro della stanza, le mani sui fianchi.
-Adesso ci organizziamo come si deve, tu ed io, che ne dici? Bene. Usciamo a comprare qualcosa da mangiare, magari della carne, che ne dici? Sì sì, della carne! Ma buona però! Non come quella roba di merda che compra tua zia…-
-Sandro, per favore!- interviene la zia con uno sguardo scuro da rimprovero –Non puoi evitare?
Ecco la bambina da chi le impara le parolacce, altro che amici immaginari! Mistero svelato. Porca miseria, mi era preso un colpo. Non sono certo un moralista, ma accidenti, dico io, quella bambina è un angioletto! Stona proprio. E’ come se un cherubino si mettesse a scorreggiare. Gli apocalittici squilli di tromba …
Lo zio intanto non ha smesso un attimo di parlare, faticosamente avviluppato in questioni di una semplicità disarmante.
-Adesso magari mi cambio, così … no no, mi cambio dopo che è già tardi, dopo chiude. Come si fa poi, se chiude? Mannaggia. Andiamo dai, muoviamoci. La carne di coso è buona, coso dai, come caz – qui si rende conto, si guarda in giro, vede lo sguardo torvo della zia e approda in un più felice e meno triviale – caz-pita si chiama?-
Lo zio è un pezzo di pane, ma quel pane vecchio di due giorni, difficile da masticare. Quando apre bocca ti bombarda di parole che, per il solo fatto di trovarsi nei pressi del suo cavo orale, vengono degradate nei monotoni lemmi di una lingua che non ha mai conosciuto l’ebbrezza di alcuno slancio verso l’alto, costretta, meschina, a strisciare come il primordiale serpente.
In che situazione mi trovo! Vorrei dire di no, che devo andare, perché mi hanno già stancato.
-Ehm, zio, io veramente non saprei…
-Che c’è? Non dirmi che vuoi già andare via? Devi assolutamente rimanere!
Dice queste ultime frasi con un accento più marcatamente meridionale, segno di forte rincrescimento. Lo zio è uno di quei veraci uomini del sud che tendono ad offendersi quando declini un loro invito alla tavola. Gli sembra che disprezzi. Non si può fare.
-Va bene, se non disturbo …
La zia ha un rialzo d’adrenalina (roba che per recuperare l’energia spesa dovrà dormire due giorni): -Ma che disturbo e disturbo! Non dire fesserie.
-Deciso allora- stipula lo zio soddisfatto.

Non fa altro che parlare zio Sandro, mentre la strada si imbianca. Procediamo nel vuoto surreale della via, schizzati ritmicamente sul viso dal giallo opaco dei lampioni, diretti a nord, verso la campagna, per comprare qualcosa da mettere a tavola.
-Vedi- dice nel mezzo del suo interminabile monsone di parole -in fondo alla strada, dopo il “Luxury”, la discoteca, c’è un distributore abbandonato. Lì c’è un vecchio alimentari. Due anni fa hanno costruito quel grosso centro commerciale, hai presente? In linea d’aria saranno cinquecento metri…
-Sì, so dove si trova.
-Ecco bravo, ma ti dirò, quel negozietto ha continuato a lavorare come se niente fosse. E sai perché?
Ed ecco il genere di frasi retoriche che mi indispongono terribilmente. Sono domande solo in apparenza. L’interlocutore non vuole veramente che io dia una risposta, anche se mi pone una domanda a cui, per quanto possa saperne lui, io potrei essere perfettamente in grado di rispondere. Ma lui questo non lo vuole, lui desidera intimamente che io mi mostri ignorante e, per questo, assetato delle sue splendide rivelazioni. Sarebbe molto sconveniente se poi io non stessi al gioco e avessi addirittura pronta una risposta. In quel caso esisterebbe l’eventualità, quasi la certezza, che quanto da me espresso si riveli come minimo un’ingenuità, se non proprio una cazzata. Dunque non è interessato a conoscere una mia opinione su un fatto, vuole semplicemente masturbarsi nell’autocelebrazione.
E lasciamolo godere. Non vorrei togliergli questa gioia.
-Non saprei proprio zio. Perché?
-Te lo dico io, perché– gongola lo zio –Perché qui sono tutte persone anziane e una volta che si prendono l’abitudine di andare in un posto, è difficile convincerle ad andare da un’altra parte, specie se più lontano.
Mentre zio Sandro sciorina le sue acute deduzioni, il cielo diventa di un nero rossastro e i palazzi incombono su di noi con le loro sagome scure. Qualcuno deve aver momentaneamente disattivato l’audio dell’universo. Un regista che si diverte a rimescolare le leve e i cursori del Grande Mixer, con una mano alza qua, con l’altra rotea di là. E improvvisamente i nostri passi e le nostre voci svettano nel viale, amplificate come un organo in chiesa. Zio Sandro ed io: due allegri compagni di bevute nell’ebbro dormiveglia della notte. Ma che notte? E’ solo ora di cena.
Al termine della strada, come già ampiamente preannunciato dallo zio, i fantocci di nailon e scotch nascondono le colonnine del distributore fantasma. Il negozio è una scatola da scarpe grigia con le serrande abbassate a metà. Dalla vetrina si può vedere l’interno. Tre file di scaffali, una cassa, un frigo per latticini e bibite, la porta di un ipotetico retrobottega. Tutto abbastanza scontato, a parte i due cadaveri che riordinano i prodotti sugli scaffali.
Zio Sandro dà un colpo alla serranda, il suono secco e improvviso risveglia i due morti (evidentemente padre e figlio) dal loro esangue intorpidimento.
-Dai entra- mi invita lo zio tenendomi la porta aperta.
Mi chino per oltrepassare la serranda, mentre lui ha già coinvolto dead-man-walking-padre in una chiassosa discussione (ovviamente a senso unico, vale a dire che parla solo lui). Il rampollo del casato invece sta fantasticando con viso rassegnato davanti alle passate di pomodoro. Sul pavimento stinto le tracce del nostro passaggio: acqua sporca e neve.
Piuttosto che dover prendere parte alle solite chiacchiere (come va mah si va tutto bene a casa non ci possiamo lamentare ah i figli ti fanno impazzire non è facile crescere dei figli al giorno d’oggi hai visto la partita domenica…) preferisco fingermi assorto nella scelta di qualche cosa da mangiare, che peraltro è il motivo per cui siamo lì, anche se lo zio sembra essersene dimenticato. Cinque minuti dopo, mentre sto meditando di fronte al frigo dei latticini, con l’aria del sacerdote delfico nell’atto di desumere arcane profezie dalle etichette colorate dei formaggini, arriva lo zio.
-Allora che vuoi mangiare?-
D’un tratto mi sento profondamente infastidito dalla sua infantile letizia, mi tornano in mente le lamentele della zia, la sua aria triste.
-Cos’ha la zia?- lo interrogo a brucia pelo. E lui per tutta risposta se ne rimane lì a bocca aperta.
-E’ come se ci fosse qualcosa che non va, e anche Giulia dice cose strane- insisto.
-Ultimamente siamo tutti molto stanchi- conclude laconico -Cosa prendiamo allora?– tenta di fuorviare, ma poi vedendo il mio disappunto: –Su Checco, stanno chiudendo– mi dice -non lo vedi che ci stanno facendo un favore?
Quest’ultima affermazione la pronuncia con un certo godimento che gli viene dalla consapevolezza di poter fare ciò che alla massa è precluso. E’ un tipo fatto così lo zio, gli piace sentirsi importante e privilegiato, senza doverselo meritare.
-Va bene, muoviamoci, basta che dopo mi spieghi!-
Siglato il patto ci dedichiamo ad alcuni frugali acquisti. Niente carne, un bel piatto di carbonara, buono, soddisfacente, economico. -Gli spaghetti a casa ci sono già, figuriamoci se non ci stanno spaghetti in una casa italiana -ridacchia lo zio- Mancano solo uova e pancetta.
Dopo un rapido eccotieniilrestograzietroppogentilegrazieatedelladisponibilità-
arrivederciaprestobuonanottesalutaacasa, siamo di nuovo in strada. Frenetici fiocchi di neve nell’aria scura. Prendo il famoso e sventurato toro per le corna: -Insomma, parliamoci chiaro. La zia non fa altro che ripetere che c’è qualcosa di strano nella casa. La vedo cupa, sfiduciata e poi, scusa, sua figlia l’ha chiamata idiota due volte e lei non ha battuto ciglio.
Lo zio si rattrista e cade in un insolito mutismo; mi chiedo se sia di malaugurio. Ha lo sguardo perso nel candore dell’asfalto. Il vento ci schiaffeggia la nuca costringendoci ad avanzare intabarrati nei baveri delle giacche. Le tende dei balconi circostanti spumeggiano senza sosta. Mentre tutto viene spinto, incalzato e premuto da quest’aria infernale, io e zio Sandro avanziamo inesorabili e ritmici. Poi lui si ferma in mezzo alla strada deserta nell’interminabile miserere del vento, il volto gli si fa paonazzo, come in preda a dolorosi conati.
-Sarà strano per lei, forse! Ma io sono cattolico e so che certe cose possono capitare qualche volta.
-Ma che accidenti vai dicendo?
Nessuna risposta, lo zio mi prende per il braccio e riprendiamo a camminare.
-Te l’ha detto tua madre che Tea è venuta a casa vostra l’altra sera?
Difficile immaginare la zia fuori da casa sua, lontana dai suoi mobili e dalla sue faccende.
-Sì, mi ha accennato qualcosa, ma così al volo. Ci siamo sentiti per telefono perché ho dormito da un’amica e non sono ancora passato da casa- confesso e subito un accenno di giocosa malizia accende il volto corrucciato dello zio.
-Amica?
-Vai avanti zio!
-Sì. Da quando siamo venuti ad abitare qui succedono cose strane: questo è quanto.
-Definisci strane.
-Che ti posso dire? Forse ci sono presenze…
-Presenze- ripeto scettico.
-Sì, presenze, insomma spiriti.
-Spiriti.
-Spiriti dei morti o del demonio in persona non lo so. Fatto sta che si sentono voci, gli oggetti si muovono da soli.
-Sembra un film dell’orrore, zio.
-E invece purtroppo è tutto vero.
-Io non ci ho mai creduto a queste cose.
-Dovresti, io le ho viste, credimi. Ci sono cose che non si possono spiegare, ma esistono. Ce ne sono tante di stranezze nel mondo, sapessi.
All’improvviso lo zio si ridesta come da un incubo, mi afferra il polso e guarda l’ora: -E’ tardi, andiamo.
Senza rendermene conto siamo già arrivati al numero 12. Lo zio si è impadronito nuovamente del suo solito energico atteggiamento.
-Adesso tu fai finta di niente, che non ti ho detto niente.
-Tanto non ci ho capito un accidenti.
Non ho mai visto lo zio che fatica a parlare e la cosa inaspettatamente mi infastidisce.
-Dai più tardi ti spiego meglio, andiamo a mangiare adesso che sto morendo.

CONTINUA NELLA PROSSIMA PUNTATA…

Daniele Modica

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